IL TRIBUNALE

    All'esito  dell'udienza  preliminare  celebrata  nei confronti di
Cantone  Francesco,  nato a Trentola Ducenta il 27 dicembre 1952, ivi
residente  in  via  P. Nenni n. 8, attualmente sottoposto alla misura
dell'obbligo  di dimora; Diana Raffaele, nato a Bacoli (Napoli) il 10
agosto 1956, residente in Villa Literno, via Ruffo di Calabria n. 11,
libero;  Falcone  Gaudenzio,  nato a Villa Literno il 19 giugno 1951,
ivi residente in via Delle Dune traversa Manna n. 7, libero;
    Rilevato che:
        il pubblico ministero contesta agli imputati, nella richiesta
di   rinvio  a  giudizio  presentata  in  data  24  luglio  2006,  le
fattispecie  previste e punite dagli articoli: 416 c.p., comma 1 c.p.
(capo  A),  81  cpv.  -  110  -  112  nn. 1 e 2 c.p. - 53-bis, d.lgs.
n. 22/1997  (capo  B); 81 cpv., 110 - 112 nn. 1 e 2, 7 - 51 comma 1 e
3,  d.lgs.  n. 22/1997  (capo  C); 81 cpv., 110 - 112 nn. 1 e 2, 640,
comma 1 e 2 c.p. (capo D); 110 - 112 nn. 1 e 2, 434 c.p. (capo E);
        l'imputazione contenuta nel capo E) della richiesta di rinvio
a  giudizio  si riferisce all'ipotesi del «disastro innominato» ed e'
cosi'  formulata:  «del reato previsto e punito dagli artt. 110 - 112
nn. 1  e  2,  434  c.p.  perche',  gestendo  dolosamente  il traffico
illecito  di  rifiuti con le modalita' e lo spiegamento di mezzi e di
forze  indicate  ai  capi che precedono, utilizzando numerosi terreni
agricoli  (di  proprieta' in particolare ma non solo di Ronza Luigi e
Diana Raffaele) e trasformandoli in vere e proprie discariche abusive
di rifiuti pericolosi, rifiuti abbandonati "tal quali" nell'ambiente,
determinavano   un   doloso  disastro  ambientale  in  un'ampia  zona
territoriale  interessante  i  comuni  di Villa Literno, San Tammaro,
Castel  Volturno  e  Falciano  del  Massico,  a  causa dell'imponente
smaltimento  di rifiuti pericolosi estremamente inquinanti il terreno
e l'ecosistema»;

                            O s s e r v a

    1.   -   Questo  giudice  dubita  della  costituzionalita'  della
disposizione  di  legge  contenuta nell'art. 434 c.p., nella parte in
cui  la  norma contempla la fattispecie incriminatrice del cosiddetto
disastro  innominato,  nel confronto con la riserva assoluta di legge
in    materia   penale   consacrata   dall'art. 25,   secondo   comma
Costituzione.
    Piu'  specificamente,  questo  giudice ritiene che la descrizione
del   comportamento   di   rilevanza   penale   usualmente  designato
dall'elaborazione   dottrinale  e  giurisprudenziale  come  «disastro
innominato»  non  sia  conforme  al  principio  di tassativita' della
fattispecie,  che codesta Corte ha piu' volte ritenuto compreso nella
portata della riserva assoluta di legge in materia penale.
    Si  richiamano  a  titolo  esemplificativo  due pronunce di segno
opposto  - una di rigetto, l'altra di accoglimento della questione di
costituzionalita'   -  adottate  in  relazione  rispettivamente  agli
artt. 323 c.p. e 8, d.l. 14 giugno 1993, n. 187, conv. nella legge 12
agosto  1993  n. 296.  In  entrambe  le  sentenze  codesta  Corte  ha
scrutinato  la  precisione  della  fattispecie ai sensi dell'art. 25,
secondo   comma   Cost.,   ritenendo   rilevante   su   un  piano  di
costituzionalita'  la  verifica  del se la descrizione della condotta
incriminata  fosse  o  meno  tale  da  lasciare  all'arbitrio  o alla
discrezionalita'  dell'interprete  la configurazione del reato (Corte
cost. n. 7/1965 e n. 34/1995).
    Con  questo  autorevole  avallo  la  dottrina pressocche' unanime
perviene   oggi   ad   integrare  il  brocardo  che  tradizionalmente
cristallizza  il  principio  di  legalita'  penale, compitandolo come
nullum crimen, nulla poena sine lege certa.
    Cosi'  integrata,  la  riserva  di  legge  soddisfa  una serie di
superiori  e  connesse  istanze:  quella  di  circoscrivere  il ruolo
creativo  dell'interprete in omaggio al principio della divisione dei
poteri,  scongiurando  la  transizione  -  pure  auspicata da qualche
autore  di lingua tedesca - dallo «Stato delle leggi» allo «Stato dei
giudici»;  quella di presidiare la liberta' e sicurezza del cittadino
il quale soltanto in leggi precise e chiare, contenenti riconoscibili
direttive  di comportamento, puo' trovare in ogni momento cosa gli e'
lecito  e  cosa  gli  e' vietato (Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364;
Corte cost., 22 aprile 1992, n. 185).
    E'   dall'insegnamento  di  codesta  Corte  che  si  desumono  le
ulteriori  potenziali  lesioni  costituzionali  che derivano da norme
incriminatici imprecise.
    La   fondamentale  sentenza  n. 364/1988  -  nell'argomentare  il
contrasto tra la versione codicistica dell'art. 5 c.p. e il principio
di  personalita' della responsabilita' penale consacrato dall'art. 27
Cost.   -   sviluppa  un  ragionamento  che  ristruttura  in  termini
democratici  il  rapporto tra potesta' punitiva dello Stato e diritti
del cittadino.
    La  Corte  stabilisce a carico del legislatore penale un onere di
chiarezza  nella  determinazione  del  precetto,  la cui inosservanza
rende scusabile l'ignoranza del cittadino destinatario del precetto e
percio'  preclude  quel  rimprovero  nel  quale  la  stessa  Corte fa
consistere  il  principio  di  colpevolezza  che  si  vuole contenuto
nell'art. 27, primo comma Cost.
    Dalla   sentenza   n. 34/1995   si  desume  infine  la  possibile
ripercussione  della  norma  incriminatrice  imprecisa sul diritto di
difesa costituzionalizzato dall'art. 24 Cost.
    Su  un  piano  di  funzionalita'  del  sistema  penale  deve  poi
osservarsi,  recependo gli stimoli di accreditata dottrina italiana e
tedesca,  che l'imprecisione del precetto si ripercuote sulle istanze
di  quella  pena  che  viene  usualmente  designata  come prevenzione
generale.
    Questa   finalita'   e'  stata  da  codesta  Corte  espressamente
riconosciuta  come  una  delle  componenti  di quel mixtum compositum
(prevenzione   generale,   retribuzione  -  proporzione,  prevenzione
speciale  -  rieducazione) che connota la dimensione funzionale della
pena   nelle   tre   fasi   della   comminatoria,   dell'irrogazione,
dell'esecuzione.
    Piu'   specificamente   la   prevenzione   generale  -  concepita
modernamente  come prevenzione positiva o prevenzione/integrazione, e
cioe'  come  dissuasione  e  nel  contempo  ristabilimento dei valori
dell'ordinamento  - e' il profilo funzionale che prevalentemente deve
connotare  la  pena  nella  fase  della  sua  previsione  generale  e
astratta.
    Ed  e' del tutto evidente che un precetto oscuro, non consentendo
al  destinatario  la comprensione del comportamento vietato, non puo'
funzionare  ne'  in senso dissuasivo ne' in senso ripristinatorio del
valore presidiato.
    2.  -  L'analisi  testuale  della disposizione incriminatrice del
cosiddetto  disastro  innominato  e  lo studio della giurisprudenza e
della  dottrina  formatesi  in  materia  inducono a ritenere difforme
detta   disposizione   rispetto   al   principio   costituzionale  di
tassativita'  - precisione come lo si e' sopra ricostruito e, per tal
via, inducono a ritenere violati i principi consacrati dagli articoli
25, secondo comma, 24 e 27 Cost.
    Il  dato  codicistico  e'  il  seguente «chiunque, fuori dei casi
preveduti  dagli  articoli  precedenti,  commette  un fatto diretto a
cagionare  il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero
un  altro  disastro  e'  punito,  se dal fatto deriva pericolo per la
pubblica incolumita', con la reclusione da uno a cinque anni. La pena
e'  della  reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro
avviene».
    La  fattispecie  ricalca  lo schema delle incriminazioni di reati
d'evento  causalmente orientate, piuttosto frequenti tra quelle poste
a  tutela  di beni giuridici di particolare rilevanza costituzionale,
ove  l'intento legislativo di protezione integrale del bene giuridico
suggerisce  una  tecnica  redazionale  concentrata  sulla descrizione
dell'evento piuttosto che sulla selezione delle condotte causative.
    La   tecnica   redazionale   non  pone  particolari  problemi  di
comprensione nella parte relativa all'incriminazione del crollo.
    La nozione corrisponde infatti a dati naturalistici di esperienza
comune,  che  la giurisprudenza e la dottrina non faticano a recepire
identificando  la  nozione  nei  fenomeni  di  «disintegrazione delle
strutture  essenziali»  di  una  costruzione  (Cass., 29 aprile 1994,
Trevisani; Cass., 26 ottobre 1973, Magliacane; Cass., 15 maggio 1975,
Del Gaudio).
    Insufficiente  e'  la capacita' informativa di quella parte della
disposizione che invece incrimina il comportamento di chi compia atti
diretti a cagionare o effettivamente cagioni «altro disastro».
    In   questa  parte  infatti  la  norma,  oltre  a  trascurare  la
descrizione  di  una  condotta,  manca  di  determinare  con adeguata
precisione   sia   l'evento   intermedio   che  il  fatto  dev'essere
obiettivamente  diretto  a  cagionare  («disastro»),  sia  gli eventi
ulteriori  di  pericolo  («pericolo per la pubblica incolumita») o di
danno   («se  il  disastro  avviene»)  che  consumano  il  delitto  o
l'aggravano.
    Si  osservera'  che  in  realta' sia la nozione di `disastro' che
quella  di  «pericolo  per  la  pubblica  incolumita»  hanno  trovato
concretizzazione  nell'elaborazione formatasi su norme che utilizzano
consimili  o  identiche  categorie  descrittive (artt. 427, 428, 429,
430, 431, 432,433 c.p.).
    Sennonche'  le  definizioni elaborate in relazione a questi altri
delitti   non   sembrano   idonee   alla   soluzione  del  dubbio  di
costituzionalita'.
    In  tutti  i  delitti  sopra  richiamati infatti i riferimenti al
disastro e/o al pericolo per la pubblica incolumita' s'inseriscono in
tipi nei quali e' intelligibile il comportamento o almeno il contesto
comportamentale  nel quale gli eventi (di danno o di pericolo) devono
andare a collocarsi.
    Si  considerino  i  casi  della  rottura  o del deterioramento di
chiuse,  sbarramenti,  argini,  dighe o di altre opere destinate alla
difesa  contro  le  acque,  valanghe,  frane (427 c.p.); o quelli del
naufragio  o  della  sommersione  di  una  nave  o  di altro edificio
natante,  della  caduta  di  aeromobile (art. 428 c.p.); o ancora gli
attentati ad impianti di energia elettrica, del gas o delle pubbliche
comunicazioni  (art. 433); o infine gli attentati portati ai pubblici
trasporti per terra, per acqua per aria previsti (art. 432 c.p.).
    In  tutte  queste  ipotesi  tipiche  e'  vero  che il legislatore
utilizza,  nella  descrizione  degli  eventi  consumativi  dei reati,
nozioni  identiche  o consimili a quelle contemplate dalla previsione
che questo giudice e' chiamato ad applicare. In nessuna di esse pero'
i  concetti  di  disastro  o  di pericolo per la pubblica incolumita'
esauriscono lo sforzo definitorio.
    Diversamente  da quanto accade nella disposizione in esame, nelle
altre  fattispecie  del  titolo  VI i termini «disastro» e «pericolo»
sono  impiegati  come  formule che designano una particolare qualita'
dimensionale  degli  effetti  di  una  condotta  umana  adeguatamente
descritti;  ovvero  sono impiegati per designare l'evento primario di
una  condotta  che  e'  essa  stessa  in qualche modo selezionata dal
legislatore.
    Il  destinatario  del  precetto  contenuto  nell'art. 427 c.p. ad
esempio puo' agevolmente comprendere la protasi del periodo ipotetico
sanzionatorio, la quale consiste in una condotta di danneggiamento di
argini  fluviali,  di  chiuse  e sbarramenti del decorso delle acque.
Cio'  lo  pone  in  condizioni  di  percepire che, se le azioni cosi'
descritte  innescano  una  sequenza  causale  di estesa potenzialita'
offensiva  o determinano concretamente un evento lesivo di dimensioni
tali  da  corrispondere  a  cio'  che  nel  senso  comune viene detto
«disastroso»  ne  deriveranno conseguenze sanzionatorie di una certa,
differenziata, entita'.
    Lo  stesso puo' dirsi per colui che sia chiamato a rispondere del
naufragio  di  una  nave o della caduta di una aeromobile. Costui ben
puo'  comprendere,  in  base a nozioni di comune conoscenza, l'evento
primario  che  consuma  il  delitto base previsto dall'art. 428 c.p.,
nonostante  formula  libera  impiegata  per  descrivere  la  condotta
(«chiunque  cagiona»).  Per  il  destinatario del precetto la formula
aggravatrice  impiegata  dal  terzo comma dell'art. 428 c.p. («se dal
fatto  deriva  pericolo  per  la pubblica incolumita»), ha una valore
puramente  dimensionale:  essa  designa  un'ipotesi  incrementatativa
degli  effetti  pericolosi ordinariamente connessi agli eventi che il
legislatore  ha  descritto e che giustifica l'apodosi dell'incremento
sanzionatorio.
    La  stessa  valenza  connotativa  assume in altre fattispecie del
Titolo  VI  l'utilizzo  di  aggettivi  che  designano una determinata
situazione  tipica:  il  disastro  ferroviario dell'art. 430 c.p., il
pericolo di disastro ferroviario dell'art. 431 c.p.
    In  questi  casi  insomma  la  tecnica  descrittiva  ricorre alle
espressioni  disastro  e di pericolo per la pubblica incolumita', per
designare  la  qualita' di un evento altrimenti descritto, ovvero per
indicare  la  dimensione  e la gravita' degli effetti di una condotta
adeguatamente  connotata, o almeno gli esiti di una situazione tipica
adeguatamente  delimitata  e  corrispondente  a  dati dell'esperienza
comune.
    E'  proprio  grazie  agli ulteriori datti connotativi che possono
assumere   un'effettiva   valenza   informativa,   nelle  fattispecie
richiamate,  le  definizioni  elaborate  dalla dottrina e dal diritto
vivente per le quali:
        «Disastro,   in  relazione  ai  delitti  contro  la  pubblica
incolumita',  e'  un  evento  dannoso  che  colpisce  persone  o cose
esponendo  contemporaneamente  a pericolo, in modo straordinariamente
grave o complesso od esteso, l'incolumita' di un numero indeterminato
di persone e generando pubblica commozione»; o ancora: «I requisiti e
i  caratteri  del  disastro vanno ricercati nella non comune gravita'
dell'evento,   nell'estensione  e  complessita'  dei  danni  e  nella
pubblica  commozione  che  dal  fatto deriva» (Cass., 11 giugno 1941,
Arrigoni).
    3.  -  E'  ben diversa la valenza che qualificazioni di tal fatta
possono avere nella disposizione incriminatrice in esame, nella quale
nessuna   delimitazione   viene   introdotta  nella  condotta,  nella
definizione    dell'evento   primario,   in   quella   del   contesto
comportamentale o del settore della vita sociale nel quale si colloca
il fatto incriminato.
    Il  problema  costituzionale  dell'art. 434 c.p., nella parte che
incrimina  il  disastro innominato, non sorge dall'analisi atomistica
di  nozioni  eccessivamente  elastiche  come  quella di disastro o di
pericolo per la pubblica incolumita'.
    Questo  giudice  e'  consapevole  del  fatto  che  la verifica di
determinatezza   non   va   compiuta   isolando  i  singoli  elementi
descrittivi   della  fattispecie;  che  un  precetto  puo'  risultare
conforme   al   principio   costituzionale,  anche  se  vi  ricorrono
descrizioni  puramente  causali,  della  condotta, elementi normativi
sintetici  o  clausole generali; che la tassativita' del precetto non
coincide  con  la  «descrittivita»  della  fattispecie  (Corte  cost.
n. 188/1975).
    Tutto   questo   vale   a   condizione   che  pero'  il  raccordo
dell'elemento   elastico   con   gli  altri  dati  costitutivi  della
fattispecie e/o con l'ambito di disciplina in cui questa si inserisce
consentano  integrazioni di significato (vedi Corte cost. n. 247/1989
e, piu' recentemente, Corte cost. n. 34/1995).
    Nel  caso  in  esame il problema risiede appunto nel fatto che le
formule  elastiche qui censurate polarizzano tutta la descrizione del
fatto  tipico  e  nessun  ausilio  informativo  o interpretativo puo'
venire  dalle  fattispecie  dello  stesso titolo, delle quali anzi la
fattispecie   di   disastro   innominato   -   con   la  clausole  di
sussidiarieta'  che  la  introduce  («fuori  dei casi preveduti dagli
articoli precedenti») - presuppone l'esclusione.
    La  stessa fattispecie - topograficamente contigua - di crollo di
costruzioni  e'  costantemente  e condivisibilmente interpretata come
categoria eterogenea rispetto al disastro innominato sanzionato sotto
la stessa rubrica:
        «l'espressione altro disastro non dev'essere intesa nel senso
che  anche  il  crollo possa costituire un disastro, bensi' nel senso
che  questo  e'  un fatto diverso dal disastro. La conferma di questa
distinzione  la  si  desume  anche dal comma 2 dell'art. 434 che, nel
prevedere   una   circostanza   aggravante   speciale  in  dipendenza
dell'avveramento dei fatti previsti nel comma 1, mantiene distinti il
crollo  e  il  disastro  come  situazioni diverse» (Cass., 26 ottobre
1960, Melis).
    4.  - Non reca alcun contributo all'intellegibilita' del precetto
da  parte  del  cittadino  destinatario, ne' alla delimitazione della
discrezionalita'  del  giudice la ricostruzione della voluntas legis,
che pure trovasi richiamata in qualche pronuncia di legittimita' come
momento  di  soluzione  della  - evidentemente condivisa - incertezza
interpretativa.
    In Cass. 6 maggio 1955, Culurciello, si legge ad esempio che: «La
disposizione  dell'art. 434 c.p., nella parte che riguarda gli "altri
disastri";  ha  carattere integrativo, essendo destinata a colmare la
lacuna  che  possa  presentarsi  fra le norme del titolo VI di fronte
alla  molteplicita' e alla varieta' dei fatti lesivi o pericolosi per
la   pubblica   incolumita'  che  possono  essere  determinati  dalle
attivita'  industriali  e  commerciali per il continuo sviluppo della
tecnica».
    L'indicazione   corrisponde   alla   relazione  ministeriale  sul
progetto  del codice penale, parte II, p. 224 si legge infatti che la
disposizione  dell'art. 440 (oggi art. 434), nella parte che riguarda
gli  altri  disastri ha carattere integrativo, che essa intende cioe'
«colmare ogni eventuale lacuna che di fronte alla multiforme varieta'
dei  fatti  possa presentarsi» nel titolo concernente la tutela della
pubblica incolumita'.
    Essa  pero',  lungi  dal risolvere il problema di identificazione
del  nucleo  del  comportamento  incriminato,  non fa che fissarne la
premessa storica.
    In  buona  sostanza il legislatore fascista esplicita la volonta'
di  colmare  con  una clausola generale il divario inevitabile tra le
evoluzioni della tecnica e le esigenze di tutela dei beni giuridici e
sceglie  di comporre l'inevitabile conflitto sbilanciandosi in favore
di  esigenze  di  integrale  penalizzazione,  a scapito delle istanze
della  certezza  del  diritto  e  del  contenimento dell'arbitrio dei
giudici.
    La  fuga  verso  le clausole generali e' del resto caratteristica
propria  del  diritto  penale  italiano  e  tedesco  degli anni `30 e
corrisponde  ad una temperie culturale che esaltava il ruolo creativo
del  giudice  all'insegna di un accentuato ripudio della certezza del
diritto.
    Il problema del giudice costituzionale non puo' allora risolversi
nell'appiattirsi   sulle   ragioni   che   indussero  il  legislatore
pre-costituzionale ad una determinata scelta definitoria, ma consiste
nell'interrogarsi   sulla  presenza  nel  tatbestand  di  costruzione
legislativa   di   quote  accettabili  di  precisione  descrittiva  e
determinatezza.
    5.  -  Il  diritto  vivente  non  consente  il  superamento delle
perplessita' appena manifestate.
    I  precedenti  di  legittimita'  sono esigui e di datazione assai
risalente.
    Taluna  delle  rarissime  applicazioni  sussume poi nella portata
della  fattispecie  de  qua comportamenti cui meglio se ne attagliano
altre  piu' puntuali. Nella sentenza resa in data 8 giugno 1954 (imp.
Pulvirenti) ad esempio si qualifica come disastro innominato un fatto
consistito  nel  rovesciamento  di  un'autocorriera  cui consegui' il
ferimento di numerosi passeggeri; fatto che meglio si acclimata nella
situazione tipica delineata dall'art. 432 c.p.
    Il  contesto giurisprudenziale e' tale da precludere il ricorso a
quel  genere di argomenti che codesta Corte ha potuto valorizzare per
escludere il vizio di tassativita' in disposizioni incriminatici come
quelle  degli  artt. 182  e  183  c.p.m.p.  («attivita'  sediziosa» e
«manifestazioni  e  grida  sediziose»)  nelle  quali  una consolidata
giurisprudenza  costituzionale e comune avevano enunciato gli estremi
necessari  per  qualificare  come «sediziose» le condotte incriminate
(Corte costituzionale, n. 519/2000).
    Il  caso  in  esame  riecheggia  piuttosto  quello del delitto di
«plagio»,  in relazione al quale la Corte considero' indice del vizio
di tassativita' il fatto che la norma aveva trovato, in cinquant'anni
di   vigenza   del   codice  penale,  un'unica  e  assai  controversa
applicazione (Corte cost. n. 96/1981).
    6.  -  La  rilevanza  nel  giudizio  a  quo della questione sopra
illustrata  discende  dal  fatto  che  questo  giudice  e' chiamato a
decidere,  nella sede dell'udienza preliminare, sul rinvio a giudizio
degli  imputati Cantone Francesco, Diana Raffaele e Falcone Gaudenzio
-  oltre che per la partecipazione ad un'associazione per delinquere,
per  il concorso in attivita' organizzate per il traffico illecito di
rifiuti, per il concorso nella realizzazione e gestione di discariche
abusive,  per  il  concorso  in  truffa  in  danno  di  enti pubblici
(fattispecie in ordine alle quali questo giudice si e' pronunciato in
data  odierna con decreto che dispone il giudizio e sentenza parziale
di non luogo a procedere) - su una fattispecie di disastro innominato
che  sarebbe  consistita  nel  massiccio  inquinamento di suoli e nei
danni  per  l'ecosistema  dolosamente  determinati  con  le  condotte
descritte negli altri capi d'imputazione.
    La  soluzione  del  quesito relativo alla costituzionalita' della
fattispecie assume rilievo pregiudiziale per la decisione processuale
di rinvio al giudizio dibattimentale.
    Pertanto  questo giudice ha disposto la separazione oggettiva del
procedimento  relativo  a  questa  imputazione  (per la quale il solo
imputato  Cantone e' assoggettato a misura cautelare non detentiva) e
la  sospensione del giudizio ex art. 23, comma 2 della legge 11 marzo
1953, n. 87.